Dario – aceto da fragolino 1

Domanda di Dario:

buongiorno
posseggo un piccolo impianto di vite fragola, essendo a conoscenza del
fatto che il vino ottenuto e’ tossico poiche’ contiene una percentuale
troppo alta di alcool metilico, vorrei sapere se trasformando il suddetto
vino in aceto la tossicita’ persiste.
Grazie e cordiali saluti
Dario

Risposta:

Salve Dario,

secondo me è esegerato dire che il vino fragolino è tossico, visto che viene
prodotto e bevuto (a uso personale) in diverse regioni.

E’ vero che nella fermentazione si produce più alcol metilico rispetto alle
altre uve ma se non si esagera nel consumo non ci sono problemi e così anche
per l’aceto (dove se ne usa pochissimo).

Per una conoscenza più dettagliata ti invio l’esauriente articolo di Edoardo
Mori.

“L’uva fragola (detta anche Uva americana, Isabella, Raisin de Cassis) è la
più antica “vite americana” introdotta in Europa ben prima che sorgesse il
problema della fillossera ed ascrivibile alla specie linneana Vitis Labrusca
(ma per alcuni potrebbe essere un ibrido americano tra la V. labrusca e la
Vitis vinifera). In Francia si hanno le sue prime notizie nel 1820 e in
Italia nel 1825.

È un vitigno poco resistente alla fillossera ed alla peronospora, ma resiste
bene al freddo, il che spiega la sua diffusione nelle vallate alpine. Il
vino che se ne produce, detto fragolino, ha un particolare aroma di fragola
che i francesi chiamano framboisier o cassis e gli anglosassoni foxy
(volpino). Questo aroma in passato non è stato molto apprezzato, ma ora il
fragolino sta trovando sempre più estimatori.
Vi sono però dei problemi giuridici che ne ostacolano la vendita. Per
comprendere la situazione attuale occorre ripercorrere la storia dell’uva
fragola
All’inizio del secolo l’unica vite coltivata nel vecchio continente, e cioè
la Vitis vinifera, venne aggredita da un parassita animale, la fillossera,
che ne minacciava la distruzione. Unica soluzione per salvare i nostri
vigneti fu di importare, come portinnesti, dei vitigni americani divenuti
resistenti al parassita, alcuni puri, altri ibridi di specie americane e,
successivamente, altri ibridi di specie americane con specie europee.
Vennero compiuti anche degli esperimenti di ibridazione tra specie europee
ed americane per cercare di evitare l’innesto sul piede americano (e vennero
detti perciò ibridi produttori diretti), ma con scarsi risultati e molti
difetti: modesta resistenza ai parassiti ed alle malattie e aromi anomali.
Tra i più noti il Clinton, il Noah o Clinton bianco, l’Elvira, il Taylor,
(ibridi tra la Labrusca e la Riparia), lo York-Madeira (Labrusca
+Aestivalis), l’Othello (Labrusca + Riparia + Vinifera), lo Jacquez e
l’Herbemont (Aestivalis + Cinere + Vinifera), questi ultimi privi del sapore
foxy.
Il dilagare di questi ibridi produttori diretti, troppo spesso considerati
la soluzione nazionale al problema vinicolo, portarono ad una
sovraproduzione di vini scadenti e alla percezione del pericolo che
rappresentavano per la qualità del prodotto. Intervenne il legislatore con
la legge 23 marzo 1931 nr. 376 che vietava “la coltivazione dei vitigni
ibrdi produttori diretti” salvo che nelle province in cui gli organi
ministeriali “ne riconoscano l’utilità” e con modalità da stabilirsi con
decreto ministeriale. Esso non riguardava perciò l’uva fragola. Però pochi
anni dopo, con la legge 2 aprile 1936 nr. 729 si estendeva la norma anche da
essa stabilendo che il divieto si applica “anche alla coltivazione del
vitigno isabella (vitis labrusca) sotto qualunque nome venga qualificata.
Tale coltivazione è peraltro ammessa anche fuori dei limiti stabiliti, nei
casi nei quali risulti accertato che è fatta solo allo scopo di produzione
di uva destinata al consumo diretto”.
Per consumo diretto doveva ovviamente intendersi sia il consumo come uva da
tavola che la sua vinificazione.
Queste norme venivano poi riprodotte nel T.U. del R.D. 16 luglio 1936 nr.
1634.
Le disposizioni appena viste non sono mai state applicate con molta rigidità
e sia l’uva fragola che gli ibridi produttori diretti hanno continuato ad
essere coltivati. Né il ministero ha mai emanato i decreti che avrebbero
dovuto disciplinarne la coltivazione. L’uva fragola si trova del resto in
regolare vendita sul mercato ortofrutticolo.
Si può quindi concludere che, a parte il divieto teorico della coltivazione
e privo di sanzioni (salvo ovviamente quella patrimoniale di non poter
chiedere contributi per l’impianto di coltivazioni di uva fragola o di
clinton!), nulla impediva all’epoca di coltivare uva fragola, di venderla e
di vinificarla.
Si può anche concludere che il legislatore non ha mai inteso vietare il vino
di uva fragola per il fatto che esso contiene una percentuale superiore alla
media di metanolo, come è invece opinione diffusa tra i profani.
Meno favorevole è la situazione del vino prodotto con queste uve, a partire
dal 1965.
L’art. 22 DPR 12 febbraio 1965 nr. 162 proibiva, sic et simpliciter, la
vinificazione di uve diverse dalla vitis vinifera; però subito, a seguito
delle proteste dei coltivatori, interveniva il legislatore a correggere la
legge; così l’art. 1 della legge 6 aprile 1966 n. 207 stabiliva che “sono
vietati la detenzione a scopo di commercio ed il commercio dei mosti e dei
vini non rispondenti alle definizioni stabilite o che abbiano subito
trattamenti ed aggiunte non consentiti o che, anche se rispondenti alle
definizioni e ai requisiti del presente decreto, provengono da vitigni
diversi dalla vitis vinifera, eccezion fatta per i mosti ed i vini
provenienti da determinati vitigni ibridi, la cui coltivazione potrà essere
consentita con decreto del ministro per l’agricoltura e le foreste in
relazione alle particolari condizioni ambientali di alcune zone ed alle
caratteristiche intrinseche dei vitigni stessi…Si intendono detenuti a scopo
di commercio i mosti o i vini che si trovano nella cantina o negli
stabilimenti o nei locali dei produttori e dei commercianti”.
Ci vuol poco a comprendere che il legislatore, secondo un uso ben
consolidato, non sapeva bene di che cosa stesse parlando e perciò si è
rifugiato in una espressione generica (vitigni bridi) che nulla dice e che
demanda tutto a decreti ministeriali che possono concernere sia ibridi
produttori diretti, sia ibridi di altro tipo, sia l’uva fragola, di cui non
si sa bene se sia o no un ibrido, ma che senz’altro il legislatore voleva
salvaguardare, visto che esso era proprio il prodotto principale per cui era
stata sollecitata la correzione della legge! La legge però contiene un
notevole miglioramento della situazione giuridica del fragolino: mentre la
legge del 1936 ne consentiva solo l’uso diretto, tale limitazione è sparita
nella legge del 1966 la quale autorizza, alla sola condizione della
preventiva autorizzazione, la coltivazione della vitis labrusca, senz’altra
limitazione e quindi anche al fine di vinificarla e di porla in commercio.
Da come è formulata la norma (molto male!) si deduce anche che è impossibile
ravvisare una sanzione a carico di chi vinifichi uva fragola senza
autorizzazione sia che lo faccia per uso proprio sia al fine di porlo in
commercio. Non può applicarsi la norma che vieta di porre in commercio vino
non proveniente dalla vitis vinifera perché è il legislatore stesso a
consentire la vinificazione e la detenzione del relativo prodotto a scopo di
commercio; non si può punire la coltivazione senza autorizzazione perché
nessuna sanzione è prevista.
Stando alla lettera della legge non parrebbe neppure vietato di chiamare il
fragolino “vino”, anche se ragioni di cautela (essendo il termine “vino”
riservato al prodotto della vitis vinifera anche in norme comunitarie)
consigliano di evitare ciò e di chiamarlo solo “fragolino” o “bevanda a base
di uva fragola”.
Quindi, a partire dal 1966 l’uva fragola poteva essere coltivata per
produrre uva destinata al consumo diretto, non vi è alcuna sanzione per chi
vendeva l’uva fragola come uva da tavola, la vinificazione dell’uva fragola
è consentita, era consentito porre in commercio il prodotto della
vinificazione dell’uva fragola.

A seguito dell’entrata in vigore di normative europea, la situazione
giuridica è stata ulteriormente modificata. Il Regolamento n. 822/1987 del
16 marzo 1987 ha fissato l’elenco dei vitigni che possono essere utilizzati
per la produzione di prodotti vinosi in esso si prevede una deroga
temporanea per gli incroci interspecifici (ibridi produttori diretti)
Infine il Regolamento (CE) n. 1493/1999 del Consiglio del 17 maggio 1999
relativo all’organizzazione comune del mercato vitivinicolo, all’art. 19, ha
stabilito che:
“1. Gli Stati membri compilano una classificazione delle varietà di viti per
la produzione di vino. Tutte le varietà classificate appartengono alla
specie Vitis vinifera o provengono da un incrocio tra questa specie e altre
specie del genere Vitis. La classificazione non può applicarsi alle varietà
seguenti: Noah, Othello, Isabelle, Jacquez, Clinton e Herbémont.
2. Nella classificazione gli Stati membri indicano le varietà di viti atte
alla produzione di ciascuno dei v.q.p.r.d. prodotti nel loro territorio.
Tali varietà appartengono alla specie Vitis vinifera.
3. Soltanto le varietà di viti menzionate nella classificazione possono
essere impiantate, reimpiantate o innestate nella Comunità per la produzione
di vino. La restrizione non si applica alle viti utilizzate a scopo di
ricerca ed esperimenti scientifici.
4. Le superfici piantate con varietà di viti per la produzione di vino non
menzionate nella classificazione devono essere estirpate, tranne nei casi in
cui la produzione è destinata esclusivamente al consumo familiare dei
viticoltori.”
Questa disposizione, che ribadisce la possibilità di coltivare la vitis
labrusca per il consumo diretto, non avrebbe inciso più di tanto se il
legislatore italiano, con la legge 4 novembre 1987 nr. 460, che convertiva
il D.L. 7-9-1987 nr. 370 non avesse stabilito l’obbligo di estirpare le viti
proibite, pena la rimozione d’ufficio a spese del coltivatore (art. 4) e non
avesse comminato la pena della multa da lire 210.000 per ogni quintale di
mosto o vino prodotto con uve diverse da quelle consentite da regolamento
europeo del 1987 e detenute a scopo di commercio, posto in vendita o
somministrato, pena comunque non inferiore a lire 1.200.000.

La legge si è dimenticata del tutto della coltivazione dell’uva fragola da
utilizzare come frutto per la distillazione di acquaviti. Non esiste ragione
al mondo di vietare questo impiego ed è evidente che la legislazione, nella
sua preoccupazione, ormai superata, di vietare la coltivazione del vitigno
andrebbe interamente rivista: se si vuole (o si deve per obblighi
comunitari) mantenere il divieto di vinificazione per uso commerciale,si
deve però riconoscere che l’uva fragola è un frutto come un’altro che è
insensato non coltivare.

In conclusione lo stato attuale della questione è il seguente:
– È consentito coltivare l’uva fragola in tutto il territorio italiano “per
il consumo familiare dei viticoltori”. L’espressione sembra restrittiva
rispetto a quella precedente che vietava solo la produzione a scopo di
commercio, ma in realtà è praticamente coincidente: il consumo familiare non
esclude ovviamente la possibilità di regalarlo ad estranei alla famiglia.
– L’obbligo di estirpazione per i vigneti che superano l’estensione
richiesta per destinare l’uva ad un uso familiare, sia pure allargato,
concerne solo le viti “per la produzione di vino”; non si applica perciò a
coltivazioni destinate a produrre uve da tavola.
– È punibile chi mette in commercio vino fragolino prodotto da vitis
labrusca. Se poi egli riesce a produrlo in altro modo … sono fatti suoi!
– Non è punibile chi distilla l’uva fragola.”

Ciao e a risentirci, Guido.

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